Il passo della Signora, 1990

Il passo della Signora di Nanda Anibaldi rivela uno stile di verità espresso con esattezza e pudore. La parola, proposta con sapiente dosatura, perde gradualmente i connotati rappresentativi del parlato per occupare la linea mobile che scrimina pensiero e scrittura, finché la poesia non è guadagnata poco a poco.
L’incatenarsi dei versi risulta più svelto del senso, la frase
per dir così è ripartita secondo una dislocazione il cui orientamento viene suggerito dal filamento che giunge ai capi della vita.
Ma è nel telaio più interno del libro che l’autrice affida la propria ricerca ai confini di una meditazione coraggiosa. Procede in un impianto in cui la soggettività matura, senza eccessivi orpelli problematici, nell’attesa di un tempo mitico sentito come eventualità desiderata.
Forse è questo il luogo poetico di Nanda Anibaldi che presuppone, molto prima della scrittura, lo scatto capace di un’imperiosa autodeterminazione della propria singolarità vivente: un’indagine incessante senza manifeste assonanze con opere o tematiche altrui
(Claudio Giovalè).

Senza titolo
Non mi serve
una coscienza
nuova
se io
non sono io
e
tu
non sei più
tu.
Porto solo
il carico
delle mie ambiguità
e
il vento
delle mie passioni
e
il peso
dei miei pensieri

e
l’angoscia
delle mie debolezze.

Senza titolo
Voglio dipendere
da me stessa
dalla mia impotenza
dalla mia nullità
dalla mia dabbenaggine
dalla mia inettitudine
dal mio bisogno
di essere Io.
Non racconterò
le favole
antiche

i miti dei popoli.
Inventerò ogni giorno
storie di ribelli
mai sentite.
Dipenderò dal mio umore
Non correrò dietro
i tuoi fantasmi.
Non ti sarò grata
di nulla
Non veglierò
sui tuoi segreti
Giocherò per me.

Senza titolo
La foresta
ha ruggito
ancora
e
la trappola
ha ingannato
la cerva
dal cuore
di farfalla
sui sentieri
di pace.
Percuotono
le foglie
fremiti
ubriachi
di luce
e
mani
di pianto
chiedono
perché
alle viscere
sconfitte
da voci
smagate
e
sussurrate
dietro tamburi
di muri d’aria.