Fammi sapere, 2016

Mia nipote Barbara dice che sono di pancia. Che nascono cioè da un travaglio viscerale. L’evento dolorosissimo che me le ha dettate ha spinto così forte come in un parto difficile e a rischio.
Difficile per la materia che brucia, a rischio per la facilità di cadere in un’emotività troppo scoperta o in una retorica di maniera. Spero di essermi salvata dall’una e dall’altra e di aver trovato il necessario quanto opportuno distacco.
Se ci sono riuscita mi ha aiutato un po’ il mestiere. L’abitudine cioè a scrivere, a trattenere la parola prima di decidere quale scegliere, a frenare il pianto.
E così il presente s’interseca con il passato e con la voglia di futuro. Il fatto quotidiano convive con un tempo mai perduto e con il desiderio che questo tempo si prolunghi all’infinito. Il dolore e il pianto sono dentro le righe in dignitoso silenzio. Ho ricercato il tempo dell’infanzia, i giochi, il tempo dell’adolescenza e della maturità. Tappe obbligate. Scansioni in cui il dopo si trascina il prima con una straordinaria connessione. Una catena che non si spezza. Vorrei interrogarti Arnoldo e chiederti che cosa ne pensi.

27 luglio 2016
Quelle mani strette tu e lei
per l’ultimo passaggio
sostituivano la parola
che non parlava più.

E con la parola non so
se taceva pure la tua coscienza.

Ma quella mano sulla tua
ti esorcizzava la paura
e ti garantiva il viaggio
che mi auguro non sia
stato accidentato.

Però, affabulatore com’eri
puoi anche rassicurarmi
per facilitare il mio.

28 luglio 2016
Viola s’interroga sul tuo sonno
e nella sua domanda
non c’è ansia di risposta.
Certo è un sonno strano
che non si sveglia col primo sole
ma con la luce radente
che attraversa l’erba di giugno
e s’intreccia sui ciuffi così vigorosi
dove il ramarro nasconde la sua tana.

Noi abbiamo abbandonato
l’ingenuità e la sapienza
di quei sei anni che si domandano
senza chiedersi
che elaborano certezze senza replica.

Lei continua la sua corsa
con un pensiero sopra le righe
anche quando dice che quel sonno
non deve far soffrire più.

2 luglio 2016
Più nessuna cosa è al suo posto 
tanto da far meraviglia questo inverno di luglio. 
La navigazione è a vista verso chissà dove. 
Ape ho succhiato nettare di parole 
che non fuoriescono però dai fiori sfogliati. 
È inutile, non ci sei. 
Il chiavistello della porta non annuncia 
la tua prima colazione 
e poi il nostro dire che bastava un niente. 
L’ultima parola era la tua 
perché riuscivi ad andare oltre il nostro dire 
quando anche tua figlia interloquiva con noi. 
Non conoscevi confini, la tua arte era anche 
nella parola che spesso esplodeva 
per concentrarsi in una forma. 
Se credessi direi che stai già lavorando. 
Fammi sapere.