Danza d’amore, 1989

La poesia di Nanda Anibaldi è semplice, lineare, quasi volutamente riduttiva, al puro e semplice suono della parola, di un intenso, travagliato, non superato dolore.
E sta proprio qui la prova della qualità poetica, non discorsiva, analitica e emblematica, della lingua dell’Anibaldi e della struttura dei suoi componimenti la cui asciutta brevità è tuttavia ricca di spazi più ampi, di risonanze e di echi più intensi di quanto quella asciuttezza e brevità non dicano a prima lettura.
È al termine di ogni componimento che dal suo interno affiorano e si imprimono nella memoria altre dimensioni, altri suoni, altri moniti: quelli della compresenza di un sempre rinnovato incontro con l’anelito vitale del ricordo pungente di ciò che non è più perché falciato da una morte precoce o dall’ineluttabile passare del tempo
(Antonello Trombadori).

Lettera al padre
Ti scrivo
sul pensiero
che ti dovevo
e lascio
uno spazio
per i giorni
che verranno.
Saranno
meno stanchi
e incerti
sostenuti
dai tuoi progetti
avallati
dai tuoi propositi.
Non cederanno
al caso
né al dolore.
Non cadranno
con l’energia
che se ne va
ora dopo ora
minuto per minuto.
Ti scriverò
ancora
per chiederti
di appoggiare
la mia avventura
di vivere.

Abitudini
È passato
il tempo
delle protette
adolescenze
ma ininterrotte
rivivo
le abitudini
di chi parlava
come te
sull’uscio di casa
di un domani
d’amore.

Chi sono
Sono il mio paese
con i miei
morti
attaccati ancora
sui muri
delle case
che mi porto
sulla pelle
anche se cammino
distratta
ora
che non ci siete più.